Abbagliante l’interpretazione di Pierfrancesco Favino. Non accade spesso nel cinema italiano di vedere attori che si trasformano totalmente per vestire i panni di un personaggio (Favino, per assumere i tratti di Bettino Craxi, si è sottoposto a lunghe sessioni al trucco: cinque ore, e altre due per tornare al naturale). Le metamorfosi sono invece frequenti sui set di Hollywood, dove il biopic è un genere consolidato (pensiamo a Gary Oldman/Churchill ne "L'ora più buia"). Ecco perché “Hammamet” di Gianni Amelio (anche co-sceneggiatore) merita assolutamente di essere visto. Non è un film biografico in senso stretto, molti i fatti inventati; vicende storiche si mescolano alla fiction. Lo stile è ermetico, lirico; un lavoro letterario che intreccia dramma e thriller (quei thriller fuori dagli schemi che non offrono soluzioni al lettore e le vicende rimangono oscure).
Amelio spiega che la pellicola ha un andamento un po’ western e un po’ noir e infatti omaggia “Le catene della colpa” di Jacques Tourneur e “Là dove scende il fiume" di Anthony Mann (di cui vediamo brevi frammenti). Favino, dicevo, è sorprendente, sembra proprio di aver davanti Bettino Craxi: (il cui nome non viene mai pronunciato). Favino ne imita perfettamente la voce, l’andatura, i gesti. Non è un film politico, ha tenuto a precisare il regista che considera il cinema “rappresentazione” e non “comizio o propaganda”.
"Hammamet" si configura come metafora della fragilità umana. Del dolore che colpisce tutti indistintamente, chi sta in alto e chi no. Vediamo un uomo all’apice del successo perdere il potere e precipitare. Attorno a lui solitudine. Gli restano gli affetti più cari, e la figlia, che qui si chiama Anita, ed è un chiaro riferimento a Garibaldi, del quale il leader socialista era un grande ammiratore.
Affilati i dialoghi. Efficaci i momenti in cui Favino/Craxi si siede a conversare, a tavola o sdraiato nel suo giardino.
©micolgraziano
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